Ultrareale, mostra in programma dal 21 maggio al 7 giugno negli spazi di Margutta Home, è la personale con cui Giampiero Abate invita a riflettere su come, in una società votata alla perfezione estetica, l’arte trova il proprio spazio all’interno del dialogo tra il reale e l’ideale. L’artista presenta cinque lavori inediti, realizzati con la tecnica precisissima dell’acrilico ad aerografo su tela e parte dai cinque solidi platonici per un’indagine che affonda le proprie radici nella storia dell’arte e della scienza.
Per entrare nel vivo della mostra RomArt Gallery ha intervistato l’artista.
Com’è strutturata l’esposizione che vedremo a Margutta Home?
“In mostra ci sono i temi legati ai 5 solidi platonici, freddi e perfetti nella loro natura, ma che si confrontano con l’uomo. Lo studio di questi dipinti nasce con l’elaborazione 3D dei soggetti, delle scene e dall’ambientazione, riportati poi sulla tela. Ecco che il tema della scienza ritorna in questa ricerca. Per enfatizzare questo legame tra tecnologia e tradizione, la visione della mostra sarà accentuata grazie alla Realtà Aumentata, cioè attraverso l’uso degli smartphone sarà possibile vedere all’interno dei dipinti ovvero del progetto 3D iniziale. È una visione diversa di una mostra, per uno sguardo verso il futuro, con un passo fermo sulla tradizione. Insieme alle 5 tele di largo formato (100×150 cm) ci saranno altre più piccole legate alle mie ricerche del movimento e della geometria”.
Cos’è l’ultrareale al quale fa riferimento il titolo della mostra?
“Per spiegarlo faccio riferimento alle parole scritte dalla curatrice, Alessandra Redaelli, che ha saputo perfettamente interpretare il mio pensiero: Ultrareale non è un titolo scelto a caso. Ultrareale è qualcosa che va al di là del reale, non perché lo superi in precisione (non è iperreale, per intenderci), ma piuttosto perché lo trascende. La perfezione tecnica non è arte. È un’arte, ma non è l’arte. L’arte è il genio di chi sa usare la propria abilità pittorica per andare a fondo e raccontarci qualcosa che non sappiamo. O forse – meglio ancora – qualcosa che dentro, in fondo, abbiamo ben chiaro, ma che non abbiamo la forza di tirare fuori. L’opera d’arte è tale e raggiunge il suo scopo quando l’intenzione dell’artista, fatalmente personale, incontra l’universale e dunque lo spettatore, che improvvisamente avverte come una scossa. Un riconoscimento”.
Secondo lei, la missione dell’arte è raccontare la perfezione, creare un modello estetico a cui mirare o rappresentare gli aspetti più prosaici della realtà?
“Nella società attuale in cui l’immagine sovrasta prepotentemente ogni cosa ed è sempre più fugace, l’arte deve avere principalmente la capacità di raccontare ed emozionare. I social network stanno rapidamente cambiando il modo di comunicare, sia nella metrica che nel modo di comunicare con le immagini. Ecco perché la figurazione narrativa sta tornando prepotentemente nel panorama artistico, perché c’è bisogno di essere più diretti (così come ci sta abituando la comunicazione web); non importa se l’artista utilizza il canone della perfezione (da una parte da decenni imposto dal mondo glamour) o la cruda realtà con una narrazione sociale o di vita quotidiana, l’importante è emozionare e lanciare un messaggio, che serva anche a far riflettere immediatamente, senza sconti”.
Quali sono i modelli a cui guarda, i suoi riferimenti artistici, quelli che l’hanno formata di più?
“La figura umana mi affascina, ma nella forma in cui il gesto o l’espressione trasmette emozioni. Un gesto della mano, uno sguardo, una torsione. La mia passione parte degli studi dei disegni del primo Rinascimento, per poi proseguire nel Barocco fino ai modelli contemporanei, inclusa l’illustrazione editoriale. Il corpo, la forma, il movimento, la dinamicità e tutto ciò che ruota intorno sono gli elementi a cui mi ispiro”.
È interessante che una mostra così profondamente contemporanea nei suoi significati, sia legata filologicamente a riferimenti della cultura classica molto alti. Ci riferiamo all’indagine dei solidi platonici, che si sviluppa tra il III e il II secolo a.c. in Grecia, passa per la cultura bizantina, islamica e romana fino ad arrivare nel ‘400 a Paolo Uccello. Poi tocca a Piero della Francesca con De Abaco e De corporis regolaribus. Per arrivare alla De divina proportione del frate francescano Luca Pacioli a cavallo tra ‘400 e ‘500. Se ne occuperanno poi Leon Battista Alberti, Dürer e Leonardo. In lei com’è nato l’interesse per un oggetto di indagine artistica tanto originale e particolare?
“La scienza è la mia passione sin da piccolo. Nato nell’era dell’esplorazione della Luna, dei viaggi dello Space Shuttle, i miei interessi sono sempre stati verso la fisica, per poi ripiegare nell’informatica. Quindi, sempre legato alla fredda logica dei numeri. Così come le iniziali indagini di Archimede prima e di Platone poi, ma che rapidamente coinvolgono temi più umanistici e di esplorazione mentale: dalle forme perfette dei 5 solidi, si trascende nelle scienze occulte, nell’esoterismo, nell’astrologia. Ci sarà poi anche l’interesse di tanti artisti per la storia: non dimentichiamo un’incredibile Ultima Cena di Dalì.
Ma ciò che mi ha affascinato e di cui proseguirò con l’indagine, è questo legame dell’aritmetica con la filosofia, della scienza con la medicina, arrivando a coinvolgere l’astrologia e l’esoterismo, o temi più moderni (come il rispetto per l’ambiente, ad esempio).
Ecco come un semplice trattato attraversa i secoli, senza mai perdere gli spunti di analisi e di riflessione”.
Lei utilizza la tecnica dell’acrilico ad aerografo su tela, che consente di avere immagini straordinariamente nitide e definite. Ci può spiegare il perché di questa scelta?
“Ho iniziato ad interessarmi alla pittura negli anni Novanta, quando l’illustrazione commerciale stava cambiando tecniche e stili con l’avvento dell’elaborazione fotografica. Scoprii per caso l’aerografo per applicarlo nel mondo della decorazione, senza mai abbandonare la ricerca pittorica. La scontata direzione verso l’iperrealismo, sinceramente non mi affascina. Piuttosto ne cerco un tratto personale, emozionale, quasi quanto la vibrazione del pennello, ma senza far perdere l’identità delle sfumature leggere e della definizione tipica della tecnica. È questo che mi affascina nell’aerografia, cioè la possibilità di modulare lo stile in modo incredibile”.
Che ne pensa dell’offerta e della scena culturale romana, in particolare del panorama delle gallerie d’arte?
“L’arte contemporanea (certamente impropriamente detta sia perché nel termine si include solamente l’astratto, il concettuale, le performance ecc, sia perché tutto questo nasce un secolo fa, perdendone la contemporaneità) ha fatto da padrone da decenni nei mercati dell’arte.
Ultimamente un forte moto della figurazione, classica o moderna, sta inondando le gallerie (qualcuno ancora in forte ritardo) e per me questo è un bene.
Roma è una piazzaccia, troppo ingessata da quel pensiero burocratico che rende difficile qualsiasi iniziativa culturale istituzionale, ma non per questo priva di un fermento di eventi privati grandi e piccoli. C’è un movimento che cerca di farsi largo in una città troppo grande, ma in maniera disorganizzata e non ordinata. Così la presenza di troppi spazi espositivi che offrono visibilità, ma non quella verso i collezionisti. È una giungla in cui è difficile non rimanere intrappolati”.
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